lunedì 15 luglio 2013
domenica 9 giugno 2013
mercoledì 1 febbraio 2012
LETTERINA A UNO VERAMENTE FORTUNATO
Gent.mo Sottosegretario-vice ministro Martone, come le è noto, la definizione sfuggitale - per così dire - del laureato ventottenne sfigato ha suscitato un po’ di clamore e qualche articolo di giornale. Nient’altro.

Vede, per certi versi la sua infelice boutade ha delle punte non secondarie di ragionevolezza. È giusto infatti che finalmente in questo paese qualcuno dica che bisogna spaccarsi il culo. Che la vita non ci viene regalata e che non si ottengono le cose se non col sudore, con l’impegno e col senso di responsabilità. Laurearsi in tempi rapidi è in linea con queste considerazioni: permette un rapido ingresso del mondo del lavoro, la possibilità di aggiustare la rotta, di fare esperienze. Tutto giusto.
Al di là della modalità un po’ semplicistica con cui lei li ha enunciati, riassumendoli negli aggettivi sostantivati ventottenne-sfigato, la verità è che questi principi sono tanto importanti quanto falsi. Non in sé naturalmente ma nella realtà sociale italiana, che lei, evidentemente, come l’intera classe dirigente di questo paese non solo non vuole vedere ma, cosa ancor più esiziale, non è in grado di leggere.
Parto dalla considerazione più ovvia, una contestazione di merito che già le è stata fatta da alcuni giornali e sulla quale è bene tornare solo per rinfrescare la memoria. Lei è nato a Nizza nel 1974, ha tre anni meno di me. Non si può non guardare con ammirazione uno come lei, laureato a 23 anni. Però scusi, ricercatore a 26 - non dottore di ricerca (titolo che si ottiene dopo tre anni di dottorato) – significa che lei dopo tre anni aveva già fatto e vinto un concorso da ricercatore. Il dubbio che non avesse pubblicato abbastanza (1 pubblicazione!), che non avesse accumulato la dovuta esperienza può legittimamente esserci. Poi ancora: che a 31 divenisse professore ordinario, pur arrivando secondo alla fine delle prove d’esame, ha veramente dell’incredibile e lo strapubblicato verbale del suo concorso a cattedra, con la ciliegina del suo stesso professore presidente di commissione d’esame è la prova di una cosa piuttosto comune nell’università: lei è un privilegiato. Che si siano ritirati 8 candidati perché vincitori di cattedra in altre sedi più gradite, scusi, è veramente fuori dalla grazia di Dio. Cioè ad un concorso si sono iscritte 10 persone delle quali otto, dico otto (l’80%), hanno contemporaneamente vinto una cattedra in altre sedi? Le hanno vinte sempre per insegnare la stessa materia? O i dieci geni d’Italia si sono concentrati tutti in quel concorso? È in realtà cosa nota che queste selezioni si svolgono dopo lunghi accordi preventivi e interuniversitari di cui la sua vicenda è un fulgido esempio. Da manuale.
Sembra dunque, se le cose stanno così, che lei non abbia fatto carriera perché è il migliore ma perché c’è qualcuno che ha costruito a tavolino il suo cursus honorum, le ha ritagliato addosso concorsi e posti di lavoro, come gran parte del personale docente e ricercatore nelle università italiane. Ormai è infatti invalsa la dizione “gli fanno il concorso” per quelli nell’università per i quali è arrivato il turno di un contratto a tempo indeterminato. Adesso, detta così è un po’ brutale ma lo è nella misura in cui tutto il sistema pubblico italiano legato alle classi dirigenti (politica, università, amministrazione della giustizia e via cantando) considera la sua carriera una cosa normale. E qui purtroppo andiamo a scoprire il vero cancro dello Stato: la mancanza totale di meritocrazia. L’Italia è una paese privo di criteri di selezione che garantiscano alla nazione la crescita culturale, politica, economica. Non ci sono metodi e pratiche che servano a filtrare i migliori tra tutti, quelli che veramente hanno una marcia in più. E non è un mero fatto di preparazione, anzi in giro ci sono carrettate di persone strapreparate e virtuose. In questo paese se vuoi entrare nella cerchia della classe dirigente devi poterti permettere lunghi anni di volontario “affiancamento” al tuo potenziale protettore, mangiando le briciole che cadono dal suo tavolo e costringendo la tua famiglia al sostegno economico del tuo percorso. Se vede il curriculum di molti pensionandi professori universitari, anche e soprattutto quelli blasonatissimi, noterà facilmente i circa dieci anni di assistenza volontaria che si sono potuti permettere a carico di papino. Questo, che ancor oggi è del tutto normale, risulta essere il primo sbarramento per la mobilità sociale. Ancor prima della preparazione personale, del merito, c’è un fatto socio culturale. Devi attaccarti alle ghette di un professore, in attesa che elargisca. Se te lo puoi permettere sei dentro. Se no sei fuori. Puoi essere pure Einstein. Mi viene il sospetto dunque che anche appartenere ad una certa fetta della società (suo padre è un rispettabile avvocato generale della Corte di Cassazione che il ministro Brunetta aveva nominato presidente della Commissione per la trasparenza nella Pubblica Amministrazione – quando si dice fortuna! - professore di Diritto del Lavoro della LUISS e de La Sapienza – guarda un po' le coincidenze!) l’abbia non poco agevolata; non è un fatto di essere raccomandati ma di avere una possibilità in più, molte possibilità in più (viaggi all’estero, master, ricerca volontaria etc.) che non le sono concesse in virtù di una speciale capacità intrinseca ma solo di una maggiore disponibilità del ceto cui appartiene.
Vede, il popolo italiano è costretto a sentire sempre un portavoce del governo che lamenta la scomoda eredità lasciata dalla precedente amministrazione. Anche Monti, converrà con me, si sente investito della massima autorità proprio in seguito ai disastri perpetrati e piovutigli in mano. Lui è stato chiamato a salvarci. Nessuno però ha mai sentito un serio lamento e visto un provvedimento rigido, rigoroso, che elimini un’altra eredità, questa però assai comoda. L’eredità di una gestione della classe dirigente totalmente basata (almeno dal dopoguerra e per cause assai ben ricostruibili) sull’autoprotezione, sul clientelismo, su di una rete capillare di favori tra politica, università, lobbies, aristocrazia e alta borghesia.
Guardi che questo non è solo un problema di formazione della dirigenza, è un problema ormai antropologico. La conduzione di questi comportamenti e la mancanza di criteri oggettivi sta causando guai terribili nella nostra cultura: chi “arriva”, pur rientrando nella media, tende a sentirsi un padreterno. Chi non arriva, non sapendo se per demerito o per le solite macchinazioni, tende a sentirsi un perseguitato, pensa di non vedere riconosciute le proprie legittime aspettative e sposa una politica del lamento che può degenerare in totale lassismo. C’è stato e c’è, in Italia, un sistema di privazione della libertà mostruoso. Chi studia, chi è appassionato di ricerca, chi crede in sé stesso, si trova troppo, troppo spesso a vedere le sue speranze diventare illusioni; a capire che se vuole arrivare ad un certo livello deve rinunciare alla propria libertà consegnandone una parte ad un protettore che deciderà della sua vita, sempre che stia attento a dove mette i piedi e non pesti mai quelli del clan.

Ora, che io debba sentir dire che un laureato a ventotto anni è uno sfigato, pur al netto delle migliori intenzioni, non lo posso accettare da chi risulta il simbolo, anzi l’emblema, di un malcostume tutto italiano. Ben più grave se mi permette.
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martedì 22 novembre 2011
Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /4
Falliti i tentativi di riforma di Crispi, sepolto politicamente dalla sconfitta di Adua (1 marzo 1896) con ridimensionamento dei sogni di gloria coloniale, le tensioni sociali stavano divenendo insostenibili. È dell’8 maggio 1898 il triste episodio dei cannoni di Bava Beccaris. È dei governi di quel periodo (Di Rudinì, Pelloux) un disegno di legge totalmente repressivo nei confronti della libertà di stampa e in tema di pubblica sicurezza. È del 29 luglio 1900 l’omicidio di Umberto I. La formula risolutiva migliore, a partire dal governo Zanardelli ma ad opera soprattutto di Giolitti, sembrò quella di integrare sempre di più le masse nello Stato liberale (e via di nuovo dunque con la negazione del concetto di classe). Accordarsi perciò con i rappresentanti dei loro movimenti politici. Questo scatenò feroci polemiche (giornali, libri, articoli accademici): riesplose la polemica antiparlamentare e antidemocratica, di nuovo emerse la necessità di protezione delle industrie nazionali (sul mercato interno ed estero), la necessità dell’espansione coloniale. E una nuova terminologia con la retorica della patria alla base. L’amore verso la nazione non era più però memoria delle guerre d’indipendenza o fedeltà allo Statuto e al monarca; era aggressiva rivendicazione; era protezionismo e colonialismo. Quello che risultava nuovo era anche una enfatizzazione del tema etnico-razziale: scriveva Corradini nel 1905 che Per la Patria, noi ci perdiamo allora nel caos di generazioni lontane del nostro stesso sangue, che respirarono e respireranno sotto il nostro stesso cielo. […] Questa è la solidarietà nazionale.
A questo si aggiungeva però, piccolo elemento di diversità, un paradossale acuirsi della lotta di classe nel tentativo di risolverla e arrivare a negare le distinzioni: per ritornare all’armonia sociale, secondo Prezzolini, bisognava che la borghesia utilizzasse gli stessi metodi delle leghe socialiste. Bisogna che essa (la borghesia) faccia diventare realtà quella che finora è stata solo odiosa predicazione, cioè la lotta di classe, ma con l’intento appunto di farla cessare. Il tutto conviveva in una visione che ha aspetti angosciosamente contemporanei: vi era una borghesia odiosa, quella dei politicanti; vi era però una borghesia fatta di gente che produceva, di gente che lavorava alacremente con i proletari che volessero eseguire seriamente i loro compiti. Questa era la vera nazione. La nazione del lavoro. Con distinzione solo tra buoni e cattivi senza, appunto, classificazioni.
E, a parlare fuori dai denti, anche qui qualche prodromo ci sarebbe. D’altro canto Prezzolini… ma pure Berlusconi.
Dunque c’era un’Italia buona (composta di borghesia e proletariato) che era profondamente nazionale. Ma un’altra, di identica composizione, totalmente antinazionale.
A semplificare la situazione e, sostanzialmente, a scoprire le carte anche in prospettiva venne la Grande Guerra. Neutralisti e interventisti. Stop. Giolitti e la maggioranza nel Parlamento neutralisti. I socialisti neutralisti. Tranne uno: Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!. Per le sue posizioni interventiste, radicalmente interventiste, dette le dimissioni e fondò un altro quotidiano: Il Popolo d’Italia; poco dopo fu espulso dal partito.
Questo è un punto cruciale. È noto che i fronti d’opinione fossero estremamente variegati. Ma che un socialista di primo piano, direttore del quotidiano di partito, prendesse una piega così contraria rispetto all’intero corpo politico cui apparteneva a me fa sospettare che avesse odorato e analizzato assai a fondo non tanto la situazione politica ma il tessuto sociale della nazione. E che le cose fin qui descritte fossero elementi cristallini di una partita a scacchi in cui lui aveva fatto un calcolo eccezionale. La mossa pro intervento costituiva la prima di una serie forzata che, pur non finendo col matto, gli avrebbe concesso una supremazia territoriale sulla scacchiera difficilmente scardinabile.
L’idea della guerra conquistava fette sempre più ampie dell’opinione pubblica, si costituivano associazioni interventiste e le cosiddette élite diventavano sempre di più a favore di una guerra senza compromessi (per interessi nazionalisti, economici, personali). Si costituirono comitati per raccogliere finanziamenti con cui si fondarono quotidiani interventisti. Il Popolo d’Italia nacque ad esempio grazie ai soldi di una cospicua cordata di cui facevano parte anche Esterle (Edison), Agnelli (Fiat), Perrone (Ansaldo). Mussolini aveva scommesso tutto sulla guerra.
L’asse austro-tedesco non era più un interlocutore come una trentina di anni prima. Era l’usurpatore, il nemico. E giù una nuova carrellata di argomentazioni retorico patriottiche incentrate sulla povera nazione italiana. Non solo. La difesa dei diritti della nazione fu sempre più connessa con la denigrazione del parlamento e del suo simbolo, Giolitti. E la decisione di entrare in guerra, con vicissitudini che è impossibile approfondire qui, avvenne assecondando l’opinione pubblica, bypassando completamente il Parlamento, calpestando la maggioranza che vi risiedeva. Il momento patriottico sublime battezzato con l’impotenza della massima istituzione dello Stato. Prodromi. Con l’idea di patria portata avanti - sin dall’epoca post unitaria in verità - come una mignotta.
Quando Mussolini, in novembre, fece il suo discorso dai banchi del governo, dopo la Marcia su Roma, poteva già permettersi un disprezzo del Parlamento che era stato costruito, non da lui ma nei quarant’anni precedenti. Lo stesso dicasi per l’antidemocrazia e per l’imperialismo. Cancri che si erano sviluppati sotto l’aura dello Stato liberale e che erano già abbondantemente metastatizzati. Evidentemente Mussolini era un ottimo diagnosta.
Il Partito fascista era diventato il partito che colmava il famoso buco lasciato dai liberali: ad esso aderirono in massa la borghesia e le élite che non si erano costituite in partito contro i pericoli rosso e nero. Dati alla mano, la maggioranza erano commercianti ed esercenti, industriali, proprietari terrieri, studenti. Era la prima volta dall’Unità. Bella presa! I liberali non seppero minimamente reagire a questa situazione (non avevano in realtà mai dovuto affrontarla). Persero il loro ruolo di riferimento e si ostinarono a non costituirsi partito, come fecero invece i cattolici col Partito Popolare.
C’è anche da dire che l’azione stessa di Mussolini e del suo partito fu destabilizzante: a posizioni social rivoluzionarie dei primi tempi si sostituirono repentinamente orientamenti profondamente liberisti. Questo, unito ad una curata organizzazione, all’attività squadrista, alla garanzia data ai proprietari contro il socialismo (siamo agli inizi), procurò adesioni massicce.
Anche le forme repressive dell’autorità centrale, coltivati dalla destra liberale, avevano lentamente preparato il terreno, per lo meno culturale, all’azione fascista.
Non credo che la lacerazione sociale e i problemi causati dalla guerra avessero influito più delle altre istanze. Anzi. Mussolini incarnava l’uomo di genio, il principe invocato da decenni.
La forza dominante che ha reso servizi inestimabili al paese, sconfiggendo la Bestia Trionfante del bolscevismo, gli antinterventisti e i fautori della lotta di classe, l’immobilismo di uno stato liberale incapace di mettere a frutto i risultati della Vittoria…
Così iniziavano i comunicati radio fascisti… c’è bisogno d’altro?
La cosa più fica però è che una delle due ragazze coi giornali in borsa, dopo la schermaglia del caffè ha fatto una simpatica osservazione: “È arrivato Piero Gobetti”. Ce l’aveva con me. E aveva ragione.
(per ora basta...)
A questo si aggiungeva però, piccolo elemento di diversità, un paradossale acuirsi della lotta di classe nel tentativo di risolverla e arrivare a negare le distinzioni: per ritornare all’armonia sociale, secondo Prezzolini, bisognava che la borghesia utilizzasse gli stessi metodi delle leghe socialiste. Bisogna che essa (la borghesia) faccia diventare realtà quella che finora è stata solo odiosa predicazione, cioè la lotta di classe, ma con l’intento appunto di farla cessare. Il tutto conviveva in una visione che ha aspetti angosciosamente contemporanei: vi era una borghesia odiosa, quella dei politicanti; vi era però una borghesia fatta di gente che produceva, di gente che lavorava alacremente con i proletari che volessero eseguire seriamente i loro compiti. Questa era la vera nazione. La nazione del lavoro. Con distinzione solo tra buoni e cattivi senza, appunto, classificazioni.
E, a parlare fuori dai denti, anche qui qualche prodromo ci sarebbe. D’altro canto Prezzolini… ma pure Berlusconi.
Dunque c’era un’Italia buona (composta di borghesia e proletariato) che era profondamente nazionale. Ma un’altra, di identica composizione, totalmente antinazionale.
A semplificare la situazione e, sostanzialmente, a scoprire le carte anche in prospettiva venne la Grande Guerra. Neutralisti e interventisti. Stop. Giolitti e la maggioranza nel Parlamento neutralisti. I socialisti neutralisti. Tranne uno: Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!. Per le sue posizioni interventiste, radicalmente interventiste, dette le dimissioni e fondò un altro quotidiano: Il Popolo d’Italia; poco dopo fu espulso dal partito.
Questo è un punto cruciale. È noto che i fronti d’opinione fossero estremamente variegati. Ma che un socialista di primo piano, direttore del quotidiano di partito, prendesse una piega così contraria rispetto all’intero corpo politico cui apparteneva a me fa sospettare che avesse odorato e analizzato assai a fondo non tanto la situazione politica ma il tessuto sociale della nazione. E che le cose fin qui descritte fossero elementi cristallini di una partita a scacchi in cui lui aveva fatto un calcolo eccezionale. La mossa pro intervento costituiva la prima di una serie forzata che, pur non finendo col matto, gli avrebbe concesso una supremazia territoriale sulla scacchiera difficilmente scardinabile.
L’idea della guerra conquistava fette sempre più ampie dell’opinione pubblica, si costituivano associazioni interventiste e le cosiddette élite diventavano sempre di più a favore di una guerra senza compromessi (per interessi nazionalisti, economici, personali). Si costituirono comitati per raccogliere finanziamenti con cui si fondarono quotidiani interventisti. Il Popolo d’Italia nacque ad esempio grazie ai soldi di una cospicua cordata di cui facevano parte anche Esterle (Edison), Agnelli (Fiat), Perrone (Ansaldo). Mussolini aveva scommesso tutto sulla guerra.
L’asse austro-tedesco non era più un interlocutore come una trentina di anni prima. Era l’usurpatore, il nemico. E giù una nuova carrellata di argomentazioni retorico patriottiche incentrate sulla povera nazione italiana. Non solo. La difesa dei diritti della nazione fu sempre più connessa con la denigrazione del parlamento e del suo simbolo, Giolitti. E la decisione di entrare in guerra, con vicissitudini che è impossibile approfondire qui, avvenne assecondando l’opinione pubblica, bypassando completamente il Parlamento, calpestando la maggioranza che vi risiedeva. Il momento patriottico sublime battezzato con l’impotenza della massima istituzione dello Stato. Prodromi. Con l’idea di patria portata avanti - sin dall’epoca post unitaria in verità - come una mignotta.
Quando Mussolini, in novembre, fece il suo discorso dai banchi del governo, dopo la Marcia su Roma, poteva già permettersi un disprezzo del Parlamento che era stato costruito, non da lui ma nei quarant’anni precedenti. Lo stesso dicasi per l’antidemocrazia e per l’imperialismo. Cancri che si erano sviluppati sotto l’aura dello Stato liberale e che erano già abbondantemente metastatizzati. Evidentemente Mussolini era un ottimo diagnosta.
Il Partito fascista era diventato il partito che colmava il famoso buco lasciato dai liberali: ad esso aderirono in massa la borghesia e le élite che non si erano costituite in partito contro i pericoli rosso e nero. Dati alla mano, la maggioranza erano commercianti ed esercenti, industriali, proprietari terrieri, studenti. Era la prima volta dall’Unità. Bella presa! I liberali non seppero minimamente reagire a questa situazione (non avevano in realtà mai dovuto affrontarla). Persero il loro ruolo di riferimento e si ostinarono a non costituirsi partito, come fecero invece i cattolici col Partito Popolare.
C’è anche da dire che l’azione stessa di Mussolini e del suo partito fu destabilizzante: a posizioni social rivoluzionarie dei primi tempi si sostituirono repentinamente orientamenti profondamente liberisti. Questo, unito ad una curata organizzazione, all’attività squadrista, alla garanzia data ai proprietari contro il socialismo (siamo agli inizi), procurò adesioni massicce.
Anche le forme repressive dell’autorità centrale, coltivati dalla destra liberale, avevano lentamente preparato il terreno, per lo meno culturale, all’azione fascista.
Non credo che la lacerazione sociale e i problemi causati dalla guerra avessero influito più delle altre istanze. Anzi. Mussolini incarnava l’uomo di genio, il principe invocato da decenni.
La forza dominante che ha reso servizi inestimabili al paese, sconfiggendo la Bestia Trionfante del bolscevismo, gli antinterventisti e i fautori della lotta di classe, l’immobilismo di uno stato liberale incapace di mettere a frutto i risultati della Vittoria…
Così iniziavano i comunicati radio fascisti… c’è bisogno d’altro?
La cosa più fica però è che una delle due ragazze coi giornali in borsa, dopo la schermaglia del caffè ha fatto una simpatica osservazione: “È arrivato Piero Gobetti”. Ce l’aveva con me. E aveva ragione.
(per ora basta...)
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