martedì 22 novembre 2011

Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /4

Falliti i tentativi di riforma di Crispi, sepolto politicamente dalla sconfitta di Adua (1 marzo 1896) con ridimensionamento dei sogni di gloria coloniale, le tensioni sociali stavano divenendo insostenibili. È dell’8 maggio 1898 il triste episodio dei cannoni di Bava Beccaris. È dei governi di quel periodo (Di Rudinì, Pelloux) un disegno di legge totalmente repressivo nei confronti della libertà di stampa e in tema di pubblica sicurezza. È del 29 luglio 1900 l’omicidio di Umberto I. La formula risolutiva migliore, a partire dal governo Zanardelli ma ad opera soprattutto di Giolitti, sembrò quella di integrare sempre di più le masse nello Stato liberale (e via di nuovo dunque con la negazione del concetto di classe). Accordarsi perciò con i rappresentanti dei loro movimenti politici. Questo scatenò feroci polemiche (giornali, libri, articoli accademici): riesplose la polemica antiparlamentare e antidemocratica, di nuovo emerse la necessità di protezione delle industrie nazionali (sul mercato interno ed estero), la necessità dell’espansione coloniale. E una nuova terminologia con la retorica della patria alla base. L’amore verso la nazione non era più però memoria delle guerre d’indipendenza o fedeltà allo Statuto e al monarca; era aggressiva rivendicazione; era protezionismo e colonialismo. Quello che risultava nuovo era anche una enfatizzazione del tema etnico-razziale: scriveva Corradini nel 1905 che Per la Patria, noi ci perdiamo allora nel caos di generazioni lontane del nostro stesso sangue, che respirarono e respireranno sotto il nostro stesso cielo. […] Questa è la solidarietà nazionale.
A questo si aggiungeva però, piccolo elemento di diversità, un paradossale acuirsi della lotta di classe nel tentativo di risolverla e arrivare a negare le distinzioni: per ritornare all’armonia sociale, secondo Prezzolini, bisognava che la borghesia utilizzasse gli stessi metodi delle leghe socialiste. Bisogna che essa (la borghesia) faccia diventare realtà quella che finora è stata solo odiosa predicazione, cioè la lotta di classe, ma con l’intento appunto di farla cessare. Il tutto conviveva in una visione che ha aspetti angosciosamente contemporanei: vi era una borghesia odiosa, quella dei politicanti; vi era però una borghesia fatta di gente che produceva, di gente che lavorava alacremente con i proletari che volessero eseguire seriamente i loro compiti. Questa era la vera nazione. La nazione del lavoro. Con distinzione solo tra buoni e cattivi senza, appunto, classificazioni.
E, a parlare fuori dai denti, anche qui qualche prodromo ci sarebbe. D’altro canto Prezzolini… ma pure Berlusconi.
Dunque c’era un’Italia buona (composta di borghesia e proletariato) che era profondamente nazionale. Ma un’altra, di identica composizione, totalmente antinazionale.
A semplificare la situazione e, sostanzialmente, a scoprire le carte anche in prospettiva venne la Grande Guerra. Neutralisti e interventisti. Stop. Giolitti e la maggioranza nel Parlamento neutralisti. I socialisti neutralisti. Tranne uno: Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!. Per le sue posizioni interventiste, radicalmente interventiste, dette le dimissioni e fondò un altro quotidiano: Il Popolo d’Italia; poco dopo fu espulso dal partito.
Questo è un punto cruciale. È noto che i fronti d’opinione fossero estremamente variegati. Ma che un socialista di primo piano, direttore del quotidiano di partito, prendesse una piega così contraria rispetto all’intero corpo politico cui apparteneva a me fa sospettare che avesse odorato e analizzato assai a fondo non tanto la situazione politica ma il tessuto sociale della nazione. E che le cose fin qui descritte fossero elementi cristallini di una partita a scacchi in cui lui aveva fatto un calcolo eccezionale. La mossa pro intervento costituiva la prima di una serie forzata che, pur non finendo col matto, gli avrebbe concesso una supremazia territoriale sulla scacchiera difficilmente scardinabile.
L’idea della guerra conquistava fette sempre più ampie dell’opinione pubblica, si costituivano associazioni interventiste e le cosiddette élite diventavano sempre di più a favore di una guerra senza compromessi (per interessi nazionalisti, economici, personali). Si costituirono comitati per raccogliere finanziamenti con cui si fondarono quotidiani interventisti. Il Popolo d’Italia nacque ad esempio grazie ai soldi di una cospicua cordata di cui facevano parte anche Esterle (Edison), Agnelli (Fiat), Perrone (Ansaldo). Mussolini aveva scommesso tutto sulla guerra.
L’asse austro-tedesco non era più un interlocutore come una trentina di anni prima. Era l’usurpatore, il nemico. E giù una nuova carrellata di argomentazioni retorico patriottiche incentrate sulla povera nazione italiana. Non solo. La difesa dei diritti della nazione fu sempre più connessa con la denigrazione del parlamento e del suo simbolo, Giolitti. E la decisione di entrare in guerra, con vicissitudini che è impossibile approfondire qui, avvenne assecondando l’opinione pubblica, bypassando completamente il Parlamento, calpestando la maggioranza che vi risiedeva. Il momento patriottico sublime battezzato con l’impotenza della massima istituzione dello Stato. Prodromi. Con l’idea di patria portata avanti - sin dall’epoca post unitaria in verità - come una mignotta.
Quando Mussolini, in novembre, fece il suo discorso dai banchi del governo, dopo la Marcia su Roma, poteva già permettersi un disprezzo del Parlamento che era stato costruito, non da lui ma nei quarant’anni precedenti. Lo stesso dicasi per l’antidemocrazia e per l’imperialismo. Cancri che si erano sviluppati sotto l’aura dello Stato liberale e che erano già abbondantemente metastatizzati. Evidentemente Mussolini era un ottimo diagnosta.
Il Partito fascista era diventato il partito che colmava il famoso buco lasciato dai liberali: ad esso aderirono in massa la borghesia e le élite che non si erano costituite in partito contro i pericoli rosso e nero. Dati alla mano, la maggioranza erano commercianti ed esercenti, industriali, proprietari terrieri, studenti. Era la prima volta dall’Unità. Bella presa! I liberali non seppero minimamente reagire a questa situazione (non avevano in realtà mai dovuto affrontarla). Persero il loro ruolo di riferimento e si ostinarono a non costituirsi partito, come fecero invece i cattolici col Partito Popolare.
C’è anche da dire che l’azione stessa di Mussolini e del suo partito fu destabilizzante: a posizioni social rivoluzionarie dei primi tempi si sostituirono repentinamente orientamenti profondamente liberisti. Questo, unito ad una curata organizzazione, all’attività squadrista, alla garanzia data ai proprietari contro il socialismo (siamo agli inizi), procurò adesioni massicce.
Anche le forme repressive dell’autorità centrale, coltivati dalla destra liberale, avevano lentamente preparato il terreno, per lo meno culturale, all’azione fascista.
Non credo che la lacerazione sociale e i problemi causati dalla guerra avessero influito più delle altre istanze. Anzi. Mussolini incarnava l’uomo di genio, il principe invocato da decenni.
La forza dominante che ha reso servizi inestimabili al paese, sconfiggendo la Bestia Trionfante del bolscevismo, gli antinterventisti e i fautori della lotta di classe, l’immobilismo di uno stato liberale incapace di mettere a frutto i risultati della Vittoria…
Così iniziavano i comunicati radio fascisti… c’è bisogno d’altro?
La cosa più fica però è che una delle due ragazze coi giornali in borsa, dopo la schermaglia del caffè ha fatto una simpatica osservazione: “È arrivato Piero Gobetti”. Ce l’aveva con me. E aveva ragione.
(per ora basta...)

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