mercoledì 2 novembre 2011

Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /1

Sono debitore per questa e per le puntate che seguiranno a A.M. Banti, Storia della borghesia italiana, Roma 1996 che ho letteralmente saccheggiato.


Ora di pausa. Scendo al bancomat. Banchetto di contestatori. Mentre guardo distrattamente il castagnaro, l’occhio va pure su un manifesto in bianco e nero appeso a un tavolo di plastica. Non si capisce una mazza. Termini vecchi e desemantizzati vorrebbero esprimere la stanchezza del popolo oppresso. Dietro, sotto il tavolo, infradito scamosciate. Alzo lo sguardo. Era lei, quella della cena coi faretti.
Ciao”.
Ciao. Vuoi un volantino?”
Certo. Come va?”
Come vuoi che vada? Con questi bori al governo.”
Eh, lo so. Sarebbe ora della rivoluzione. Che dici?” Cerco di fare il simpatico.
Guarda”, fa lei, “ormai mi accontenterei persino di un governo di destra con persone normali. Normali dico. Gente per bene. La destra storica”.
E ti pareva. Lo sapevo che finiva così. Me ne volevo andare con una scusa tipo “ho fretta, mi aspettano”. Però purtroppo ho risposto: “Nooo, quelli no. Quelli ci hanno portati dritti dritti al fascismo”.
Ma scherzi? Cavour, Ricasoli… è a loro che dobbiamo quel po’ di Stato che funziona! E te lo dico io che sono quasi stalinista”.
Porcaeva. Ma perché mi metto sempre in questi casini? Dovevo pure tornare a lavoro…
Vabbe’, senti ne parliamo un’altra volta. Tanto pare che anche non volendo ci vediamo spesso.”
No, no. Dimmi, almeno in sintesi, quello che pensi”.
Madonnamia. Qui si finisce a litigare. Non c’è nemmeno un padrone di casa a fare da peacekeeper.
Guarda, voglio solo dire che le cose non piovono dal cielo. Se siamo arrivati al fascismo e se ora abbiamo una marea di problemi di ordine amministrativo e politico i motivi stanno già nei primi anni di unità. Altro che Patria e bandiera. Quello era il corollario retorico di atteggiamenti tutt’altro che liberali.”
Cioè la destra liberale non era liberale? Ma sei impazzito? Carla, Luisa, venite a sentire!”
Ma tu che vuoi da me? Io me ne stavo andando. Hai insistito.”
No, dimmi. Voglio che ascoltino anche loro.”
E arrivano due con jeans, maglietta, sneakers. Dalle borse spuntano vari quotidiani: riconosco il Manifesto, la Repubblica ma ce ne sono almeno altri due misteriosi.
Che devo dire? Meno parli meglio è. Se parli sono rotture di palle. Poi dicono che io non mi filo nessuno.
Il fatto è che se uno va a vedere sul serio l’ordinamento programmato e attuato dalla “destra liberale” tra il 1859 e il 1865 si evince con chiarezza la volontà di realizzare uno stato forte e autoritario. Una cosiddetta dittatura della maggioranza. E se qualche seria causa si può rintracciare, dopo il 1870, nelle spinte antiunitarie e nel brigantaggio, è proprio nel periodo precedente, quando questi problemi non sono all’ordine del giorno, che si vede la volontà tutt’altro che aperta del governo centrale.
Tanto per cominciare: secondo la legge del 20 marzo 1865, art. 3 il prefetto rappresentava il potere esecutivo in tutta la provincia, provvedeva alla pubblicazione ed esecuzione delle leggi, vegliava sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, soprintendeva alla pubblica sicurezza, aveva diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata. Dipendeva, inoltre e soprattutto, dal Ministro dell’Interno di cui eseguiva le istruzioni. Queste istruzioni riguardavano l’ingerenza governativa nell’amministrazione comunale e provinciale, regolata da legge ben precisa (cioè questa cosa dell’ingerenza la legge ce l’aveva nel titolo). Tra i compiti del prefetto c’era ad esempio quello di controllare e approvare le deliberazioni dei consigli comunali perché diventassero esecutive. E controllava anche gli atti dei consigli provinciali. Da solo. Dunque il governo aveva una vigilanza assai ampia sui provvedimenti degli organi elettivi. Senza contare che ai prefetti si delegava il compito di stimolo delle forze economiche e sociali nella loro area di competenza, per accelerare processi di incivilimento (traducibile con un più prosaico ruolo di educazione e propaganda). Cioè una capillare penetrazione degli organi centrali nella società senza reali decentramenti. Forza e autorità centrale.
Questo derivava da un concetto comune all’intera classe politica riconosciuta come “destra storica”. Prendiamo le parole di un padre della patria acclamato come Massimo D’Azeglio: Che cos’è il governo? Non è forse quello tra i partiti che s’è trovato più numeroso, e che secondo le regole del sistema costituzionale fu perciò investito del potere esecutivo? Il governo, mi direte, è per tutti; dunque dev’essere imparziale fra tutti i partiti. Come imparziale? Pugna ne’ termini. Precisamente perché è un partito, e nel principio medesimo che l’ha condotto al potere, deve cercare di restarvi: l’agire in altro senso sarebbe rinnegare sé stesso, la sua politica, la fiducia della corona e della maggioranza del paese. Lo Stato è considerato di proprietà di una parte. E la proprietà dello Stato si fonda sul consenso elettorale. Altro che Berlusconi. Che un prefetto dovesse agire in esecuzione imparziale delle leggi a D’Azeglio e compagnia non passava neanche per l’anticamera del cervello.
Non solo. Fin dalle prime elezioni l’opinione pubblica poté constatare che il governo cercava in ogni modo di influenzare gli elettori attraverso l’azione dei prefetti. Il liberalismo de’ noantri. Il governo era anche un partito e faceva campagna elettorale con tutti i mezzi a sua disposizione, anche attraverso istituzioni che per loro natura avrebbero dovuto garantire imparzialità.
Ugualmente nei confronti del potere giudiziario: mentre nei proclami generali si intendeva dare la massima indipendenza alla magistratura, era proprio con leggi apposite che questa indipendenza veniva sostanzialmente negata. Nel regio decreto del 6 dicembre 1865, art. 169 si diceva: il pubblico ministero è rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria (un prefetto presso i tribunali dunque) ed è posto sotto la direzione del ministro di Giustizia. Il Ministro poteva procedere direttamente alle nomine, indipendentemente dai concorsi, poteva trasferire, sospendere o dimettere d’ufficio. Cioè o il magistrato seguiva le direttive del governo o lo defenestravano. I liberali. Quello giudiziario era solo un ordine, dunque sottoposto al rigoroso controllo del governo centrale. Non garantire l’inamovibilità dei giudici significava non garantirne l’indipendenza, come sapevano perfettamente molti esponenti politici di allora.
Poi: è noto che lo Statuto Albertino prevedeva libertà di stampa. Con esso in realtà si aboliva la censura preventiva ma non il controllo repressivo. Cioè si colpivano le pubblicazioni non più prima che eventualmente violassero la legge e l’ordine ma dopo. Prima scrivi, però se non scrivi come dico io ti metto in galera. E infatti il pubblico ministero, su propria iniziativa o dietro querela privata, poteva mettere sotto la morsa dell’azione penale uno stampato, dichiarando le proprie motivazioni e dandone notizia immediata al giudice che, per accertarsi della consistenza giuridica, disponeva il sequestro di una copia da visionare. Ora, questo sequestro venne da sempre interpretato in modo estensivo come di tutte le copie in circolazione. Tutte. Salvo poi restituirle al proprietario nel caso di un decadimento delle motivazioni che avevano imposto l’avvio delle procedure giudiziarie. È ovvio però che restituire un quotidiano - tutte le copie di un quotidiano - anche solo il giorno dopo, lo rendeva inutilizzabile. E dunque il sequestro diventava un potente strumento censorio, come in effetti fu. Se consideriamo la sudditanza del pubblico ministero nei confronti del governo, risulta chiara la capacità di vigilanza che quest’ultimo poteva esercitare sulla stampa.
Addirittura e inoltre, nei confronti delle associazioni la capacità di intervento dell’esecutivo non aveva alcun tipo di intermediazione. Quando iniziarono a formarsi le prime associazioni di orientamento politico contrario al governo (repubblicani in primo luogo) si voleva che fosse il presidente del consiglio a scioglierle. Fu Rattazzi ad accettare questa linea e a presentare un disegno di legge, il 3 giugno del 1862, atto a dare il potere al governo di sciogliere associazioni i cui principi fossero contrari allo Statuto e che minassero la sicurezza dello Stato. Vista una certa ostilità della Camera il presidente sollecitò un parere del Consiglio di Stato sul fatto che il governo potesse sciogliere le associazioni “suscettibili di danneggiare gravemente l’ordine pubblico”. Il Consiglio di Stato diede parere favorevole, il parere divenne giurisprudenziale e il governo si trovò nelle mani il potere di decidere quali fossero le associazioni buone o cattive in maniera del tutto arbitraria e autoreferenziale. I liberali.
(continua)

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