venerdì 2 settembre 2011

Demolition blues

Quando m’hanno detto che erano arrivate le gru al pontile della nucleare, lo giuro, ho pensato a una migrazione di volatili. Non mi è passato nemmeno per la testa che si potesse trattare delle macchine per demolirlo. Mi sono pure detto: “Guarda che fico, magari la natura ci aiuta a farlo diventare un’attrazione turistica”. Poi sono andato al mare e ho visto coi miei occhi gli enormi bracci che si innalzavano, spiccando dalla testa del serpentone di cemento. Dietro c’era Torre Astura, come sempre, e dalla parte opposta, quasi speculare, il Circeo. Ma il pontile stava per sparire.
Io non so nemmeno com’è fatto il panorama, senza. Per me c’è sempre stato. Di qua il promontorio, di là il pontile della nucleare. È sempre stato così.
Insomma, com’è come non è, volevo piantare una grana. Quello in teoria potrebbe diventare un bene di archeologia industriale, un monumento del progresso (comunque la si pensi sul nucleare), basterebbe farci una passerella centrale e metterci un chiosco sull'estremità in mezzo al mare. A ottocento metri dalla costa. Se installi pure un cannocchiale a gettone puoi togliere le strisce blu su tutto il lungomare. E puoi trasformare un capolavoro della tecnica in un luogo di socializzazione. I costi sono gli stessi, più o meno, tra demolirlo o mantenerlo; con la differenza che mantenendolo potresti guadagnarci sopra. Pensa a mettere anche dei posti per i pescatori, due euro quattro ore… Ma non si può montare un casino ogni volta, mi dicono.

Il pontile è costituito da quattro file parallele di pilastri in cemento armato, quelle che ora stanno demolendo, tra le quali sono posati due enormi tubi di presa dell’acqua di raffreddamento dell’impianto della centrale nucleare. Due metri e settanta di diametro per una portata di centottanta metri al secondo ciascuno. Una cosa mostruosa. Quando bisognava pulirli venivano chiusi, svuotati dall’acqua e dentro ci si calava un trattore che arrivava in fondo, apriva una specie di ombrello che aveva il diametro del tubo e veniva indietro, tirandosi appresso tutto il deposito. Un deposito meraviglioso: polpi, crostacei, spigole, cefali, mafroni, saraghi, marmore. E via con la brace. A volte i pescatori, quando i tubi erano in manutenzione, andavano di nascosto a far saltare le griglie di testata dei tubi, per fare rifornimento: niente di più pericoloso. Immaginate che vuol dire rimettere in funzione tubi che aspirano acqua al ritmo di centottanta metri cubi al secondo. Se li risucchiava con tutta la barca. Ora è ovvio che se stanno demolendo i pilastri, i tubi dovranno toglierli, non è che possono lasciarli fluttuare sul fondo del mare. Almeno credo. Invece magari si potevano sfruttare come spazi; non so, potrebbe essere una cazzata ma mi sono immaginato un percorso con gli oblò: vai dentro e vedi tutto il mare dal fondo, per ottocento metri. Certo meglio che tentare di sfruttarli per incanalare gli scarichi depurati delle fogne, come ho sentito dire: avete idea della pressione che bisogna superare per fare uscire i liquidi a quella profondità? E poi i tubi finiscono nella presa d’acqua dell’impianto di raffreddamento della centrale. Boh…
Ma non voglio fare polemiche. La demolizione è inutile e dannosa, come la speranza di fare il faraonico porto col lungomare di merda che abbiamo e con le mulattiere che si ingorgano al primo che frena un po’ più prudentemente della media.

Ad ogni modo a me la sparizione del pontile m’ha messo il magone. Sarò un sentimentale, che vi debbo dire? Però non sono solo: gran parte di quelli di Borgo Sabotino (il borgo dov’è la centrale nucleare) sono con me. Hanno pure raccolto le firme ma il Comune ha agito alla traditora. Conferenza dei servizi a luglio inoltrato, cittadini senza voce e zac! Gru al pontile. Più per questo, devo dire, che per le operazioni in sé, mi viene da fare un macello. Ma anche perché è come se stessero distruggendo un pezzo di casa mia.
Migliaia di volte da ragazzino ho preso la bici e sono andato dal tribunale a Capo Portiere, ho bevuto alla fontanella e mi sono asciugato il sudore guardando il pontile, girato verso Foce verde. Da solo. Era bellissimo. Oppure ho vagato verso Sabotino, passando davanti al Procoio e poi arrivando a Foce verde. C’era un fiume che sfociava lì. Non ho mai saputo che era il canale Mussolini (detto verginalmente “delle Acque Alte”) fino a che non me l’ha detto Massimo Marzinotto. Per me l’unico canale della bonifica era quello delle Acque Medie. Ma neanche di quello sapevo nulla, se non che passava dietro casa mia e ci andavo a fare i pic nic coi compagni delle elementari. Sapevo che c’era quell’altro, intendiamoci, ma solo perché ci passavo sopra in macchina, sull’Appia.
Ora, tutti dicono che quando durante il fascismo iniziarono le demolizioni, Mario Mafai vide in giro le palazzine mezze sventrate e ne trasse delle “meditazioni coloristiche”. In effetti quel ciclo delle “demolizioni” – di Mafai ma anche di Afro – sono di una bellezza e di un fascino uniche. Sono attraenti, piene di colori, la carta da parati delle stanze scuoiate diventa una serie di macchie colorate, in un’atmosfera intensa, con la luce bella e serena. Però non c’è un’anima. Cioè non si vede un essere umano nei paraggi. Sembra quasi che Mafai ritenesse la realtà già terribile così, senza necessità di descriverla con atmosfere plumbee. Tanto è bella la luce di questa giornata, tanto sono affascinanti i colori che escono da quelle palazzine, ormai ruderi, tanto è terribile la realtà, senza umanità. E tutti dopo l’hanno presa come produzione antifascista, come aspra critica dell’atteggiamento autoritario del regime. In realtà quei casini a Roma li vedevano ininterrottamente dal 1870, non so se quella della protesta fosse la molla, la spinta principale dell’ispirazione. Certo è però che quei quadri sono bellissimi. E io vorrei tanto saper dipingere le gru al pontile, mentre mi scavo lo stomaco una volta di più.
C’è stata una volta che, passeggiando a Capo Portiere dopo la solita spedalata, ho visto una ragazza coi capelli rossi, magra, con le lentiggini. Armeggiava con una macchina fotografica, una Pentax professionale, con uno zoom montato impressionante, dentro a una Renault 4 rossa. Poi è scesa e dal bagagliaio ha preso un cavalletto. S’è piazzata sulla testata del molo, guardando verso il Circeo. Poi s’è girata verso di me e mi ha detto: “dov’è il pontile della centrale nucleare?” “è quello”, ho detto io, tracciando con la mano un semicerchio orizzontale. Lei mi ha sorriso, come per dire “grazie, che imbranata”. Punto. Be’ io quel sorriso me lo ricordo ancora come uno dei più bei regali che abbia mai ricevuto.
Adesso me lo levano, il pontile. E in vita mia non gli ho mai fatto una foto. “Tanto è là”, dicevo. E ora? Sarà che è vero - anche se mi duole ammetterlo - che la maggioranza degli esseri umani capisce di tenere alle cose quando per via degli innumerevoli casi della vita, non le ha più. Deve essere stato così pure per il palazzo della Warner Bros. a Dallas, al 508 di Park Avenue. È appena a due isolati dai quartieri bene, ma un po’ fuori mano. Se ci vai adesso vedi solo barboni, ubriachi poveracci che bivaccano. L’edificio è abbandonato e hanno deciso di demolirlo. Appena emessa l’ordinanza ecco che è scoppiato un putiferio: i giornali, gli amanti della cultura, la gente comune. Tutti uniti. “Eh no! Già a Dallas non c’è un cazzo, ci levate pure questo?”. Ed hanno ragione perché quel palazzo, oltre ad essere un pezzo storico importante, architettonicamente (è in gran parte rivestito di marmo, fuori ma soprattutto dentro, la qual cosa gli conferisce un’acustica tutta particolare), è il palazzo nel quale Robert Johnson, nel 1937, ha registrato tredici fondamentali pezzi, che hanno fatto la storia del blues e della musica americana in genere, tra cui Love in vain e Me & the devil blues. Nella stessa stanza delle mitiche registrazioni Eric Clapton ha poi inciso Sessions for Robert Johnson. Molti ragazzi che hanno imparato a suonare la chitarra sono andati là sotto, sognando che un giorno sarebbero entrati in quel palazzo e avrebbero fatto la storia. Molti invece sono andati sperando di incontrare questo o quel famoso. Anche lì tutti ci vogliono un museo, un luogo storico. E si potrebbe fare. L’hanno capito pure a Dallas che un bene culturale è tale anche se recente ma contiene pezzi della nostra anima, della nostra formazione, i nostri ricordi.
Per demolirlo, il pontile l’hanno ucciso. Era vivo e l’hanno ammazzato. Potevamo goderne tutti. Ora gode solo la Sogin.
Amen.

2 commenti:

  1. Leggo queste parole e non posso che ritrovare nelle tue sensazioni le stesse che ho provato io. Ho fatto un macello davvero su facebook per fare in modo che venisse messa in moto qualche operazione "sovversiva" per non far demolire quel capolavor che è il pontile. Io, come te, ne conservo dei ricordi meravigliosi. Io che ho scavalcato un bel po' di volte quel cancello che ne limitava l'accesso. Io, che ho uno dei ricordi più belli della mia vita legato proprio a quel pontile. Un momento con un amico, quasi 10 anni fa. Un momento in cui laggiù, quasi un chilometro in mezzo al mare, c'era aria di cambiamento, di crescita, di passaggio da adolescente ad adulto. Un momento di riflessione in mezzo al nulla, circondato solo da acqua di mare. Me ne sbatto il c**** di tutti quelli che dicono che servirà a costruire un futuro nuovo per il litorale di Latina! Me ne sbatto di quelli di Anima Latina, i vari Guercio e compagnia bella. Lo sappiamo bene tutti quanti: non accadrà nulla al litorale di Latina, nè ora nè mai. Forse nemmeno i figli dei miei figli vedranno sorgere qualcosa sul litorale di Latina. Hanno abbattuto qualcosa di storico, qualcosa di nostro. Quasi 3 milioni di euro per fare una demolizione!!! Dice bene Francesco: si poteva fare qualcosa di attraente. L'idea più stupida avrebbe avuto successo. Quanti altri posti hanno un accesso "pedonale" in mezzo al mare, fino ad un kilometro in mezzo al mare??? Che schifo! Città di merda, politici di merda!!!!

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  2. a volte mi vergogno di essere nato e cresciuto in questa città

    il problema è il latinense medio
    che se ne sbatte del pontile
    troppo preoccupato per l'eventualità di dover pagare una supertassa per il macchinone

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