Falliti i tentativi di riforma di Crispi, sepolto politicamente dalla sconfitta di Adua (1 marzo 1896) con ridimensionamento dei sogni di gloria coloniale, le tensioni sociali stavano divenendo insostenibili. È dell’8 maggio 1898 il triste episodio dei cannoni di Bava Beccaris. È dei governi di quel periodo (Di Rudinì, Pelloux) un disegno di legge totalmente repressivo nei confronti della libertà di stampa e in tema di pubblica sicurezza. È del 29 luglio 1900 l’omicidio di Umberto I. La formula risolutiva migliore, a partire dal governo Zanardelli ma ad opera soprattutto di Giolitti, sembrò quella di integrare sempre di più le masse nello Stato liberale (e via di nuovo dunque con la negazione del concetto di classe). Accordarsi perciò con i rappresentanti dei loro movimenti politici. Questo scatenò feroci polemiche (giornali, libri, articoli accademici): riesplose la polemica antiparlamentare e antidemocratica, di nuovo emerse la necessità di protezione delle industrie nazionali (sul mercato interno ed estero), la necessità dell’espansione coloniale. E una nuova terminologia con la retorica della patria alla base. L’amore verso la nazione non era più però memoria delle guerre d’indipendenza o fedeltà allo Statuto e al monarca; era aggressiva rivendicazione; era protezionismo e colonialismo. Quello che risultava nuovo era anche una enfatizzazione del tema etnico-razziale: scriveva Corradini nel 1905 che Per la Patria, noi ci perdiamo allora nel caos di generazioni lontane del nostro stesso sangue, che respirarono e respireranno sotto il nostro stesso cielo. […] Questa è la solidarietà nazionale.
A questo si aggiungeva però, piccolo elemento di diversità, un paradossale acuirsi della lotta di classe nel tentativo di risolverla e arrivare a negare le distinzioni: per ritornare all’armonia sociale, secondo Prezzolini, bisognava che la borghesia utilizzasse gli stessi metodi delle leghe socialiste. Bisogna che essa (la borghesia) faccia diventare realtà quella che finora è stata solo odiosa predicazione, cioè la lotta di classe, ma con l’intento appunto di farla cessare. Il tutto conviveva in una visione che ha aspetti angosciosamente contemporanei: vi era una borghesia odiosa, quella dei politicanti; vi era però una borghesia fatta di gente che produceva, di gente che lavorava alacremente con i proletari che volessero eseguire seriamente i loro compiti. Questa era la vera nazione. La nazione del lavoro. Con distinzione solo tra buoni e cattivi senza, appunto, classificazioni.
E, a parlare fuori dai denti, anche qui qualche prodromo ci sarebbe. D’altro canto Prezzolini… ma pure Berlusconi.
Dunque c’era un’Italia buona (composta di borghesia e proletariato) che era profondamente nazionale. Ma un’altra, di identica composizione, totalmente antinazionale.
A semplificare la situazione e, sostanzialmente, a scoprire le carte anche in prospettiva venne la Grande Guerra. Neutralisti e interventisti. Stop. Giolitti e la maggioranza nel Parlamento neutralisti. I socialisti neutralisti. Tranne uno: Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!. Per le sue posizioni interventiste, radicalmente interventiste, dette le dimissioni e fondò un altro quotidiano: Il Popolo d’Italia; poco dopo fu espulso dal partito.
Questo è un punto cruciale. È noto che i fronti d’opinione fossero estremamente variegati. Ma che un socialista di primo piano, direttore del quotidiano di partito, prendesse una piega così contraria rispetto all’intero corpo politico cui apparteneva a me fa sospettare che avesse odorato e analizzato assai a fondo non tanto la situazione politica ma il tessuto sociale della nazione. E che le cose fin qui descritte fossero elementi cristallini di una partita a scacchi in cui lui aveva fatto un calcolo eccezionale. La mossa pro intervento costituiva la prima di una serie forzata che, pur non finendo col matto, gli avrebbe concesso una supremazia territoriale sulla scacchiera difficilmente scardinabile.
L’idea della guerra conquistava fette sempre più ampie dell’opinione pubblica, si costituivano associazioni interventiste e le cosiddette élite diventavano sempre di più a favore di una guerra senza compromessi (per interessi nazionalisti, economici, personali). Si costituirono comitati per raccogliere finanziamenti con cui si fondarono quotidiani interventisti. Il Popolo d’Italia nacque ad esempio grazie ai soldi di una cospicua cordata di cui facevano parte anche Esterle (Edison), Agnelli (Fiat), Perrone (Ansaldo). Mussolini aveva scommesso tutto sulla guerra.
L’asse austro-tedesco non era più un interlocutore come una trentina di anni prima. Era l’usurpatore, il nemico. E giù una nuova carrellata di argomentazioni retorico patriottiche incentrate sulla povera nazione italiana. Non solo. La difesa dei diritti della nazione fu sempre più connessa con la denigrazione del parlamento e del suo simbolo, Giolitti. E la decisione di entrare in guerra, con vicissitudini che è impossibile approfondire qui, avvenne assecondando l’opinione pubblica, bypassando completamente il Parlamento, calpestando la maggioranza che vi risiedeva. Il momento patriottico sublime battezzato con l’impotenza della massima istituzione dello Stato. Prodromi. Con l’idea di patria portata avanti - sin dall’epoca post unitaria in verità - come una mignotta.
Quando Mussolini, in novembre, fece il suo discorso dai banchi del governo, dopo la Marcia su Roma, poteva già permettersi un disprezzo del Parlamento che era stato costruito, non da lui ma nei quarant’anni precedenti. Lo stesso dicasi per l’antidemocrazia e per l’imperialismo. Cancri che si erano sviluppati sotto l’aura dello Stato liberale e che erano già abbondantemente metastatizzati. Evidentemente Mussolini era un ottimo diagnosta.
Il Partito fascista era diventato il partito che colmava il famoso buco lasciato dai liberali: ad esso aderirono in massa la borghesia e le élite che non si erano costituite in partito contro i pericoli rosso e nero. Dati alla mano, la maggioranza erano commercianti ed esercenti, industriali, proprietari terrieri, studenti. Era la prima volta dall’Unità. Bella presa! I liberali non seppero minimamente reagire a questa situazione (non avevano in realtà mai dovuto affrontarla). Persero il loro ruolo di riferimento e si ostinarono a non costituirsi partito, come fecero invece i cattolici col Partito Popolare.
C’è anche da dire che l’azione stessa di Mussolini e del suo partito fu destabilizzante: a posizioni social rivoluzionarie dei primi tempi si sostituirono repentinamente orientamenti profondamente liberisti. Questo, unito ad una curata organizzazione, all’attività squadrista, alla garanzia data ai proprietari contro il socialismo (siamo agli inizi), procurò adesioni massicce.
Anche le forme repressive dell’autorità centrale, coltivati dalla destra liberale, avevano lentamente preparato il terreno, per lo meno culturale, all’azione fascista.
Non credo che la lacerazione sociale e i problemi causati dalla guerra avessero influito più delle altre istanze. Anzi. Mussolini incarnava l’uomo di genio, il principe invocato da decenni.
La forza dominante che ha reso servizi inestimabili al paese, sconfiggendo la Bestia Trionfante del bolscevismo, gli antinterventisti e i fautori della lotta di classe, l’immobilismo di uno stato liberale incapace di mettere a frutto i risultati della Vittoria…
Così iniziavano i comunicati radio fascisti… c’è bisogno d’altro?
La cosa più fica però è che una delle due ragazze coi giornali in borsa, dopo la schermaglia del caffè ha fatto una simpatica osservazione: “È arrivato Piero Gobetti”. Ce l’aveva con me. E aveva ragione.
(per ora basta...)
martedì 22 novembre 2011
Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /4
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martedì 15 novembre 2011
Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /3
si dà il caso che già a partire dal 1862 correnti antiparlamentariste diventassero sempre più potenti sia nella politica che nell’opinione pubblica. A metà degli anni ’70 dell’Ottocento Guerrazzi scriveva del Parlamento: simbolo della meschinità e dell’affarismo di quell’Italia postrisorgimentale, in cui si è consumato fino in fondo il tradimento di quelle potenzialità democratiche e popolari per le quali si era tanto lottato. Ed era una voce tra le tantissime. Dagli addetti ai lavori ai giornalisti, dai narratori agli sceneggiatori teatrali era un pullulare di tesi, saggi, satire, invettive contro il parlamento. In questo contesto, oltre alla comune critica dell’Italiano, individualista e senza disciplina, si raggiungevano picchi di antidemocrazia mascherata per interesse della nazione. Ad esempio Gaetano Mosca in (Teorica dei governi e governo parlamentare, 1884): Chiunque abbia assistito ad una elezione sa benissimo che non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che sono i suoi amici che lo fanno eleggere. Ad ogni modo questo è sicuro che una candidatura è sempre l’opera di un gruppo di persone riunite per un intento comune, di una minoranza organizzata che, come sempre, fatalmente e necessariamente s’impone alla maggioranza disorganizzata. Dunque coloro che “si fanno scegliere” dagli elettori non erano i migliori, i più saggi ma i più spregiudicati ed immorali. A me questo tratto ricorda qualcosa. Qualcosa che ci trasciniamo dall’Unità al 2011. Concludeva Mosca in maniera inquietante: Che possa e debba durare lungamente il regime parlamentare puro quale l’abbiamo ora in Italia, qual è in Francia e in qualche altro paese, che esso possa quindi divenire una forma di governo stabile e normale, noi non crediamo in nessun modo probabile. Echi dello stesso tenore in Ruggero Bonghi e persino Cesare Lombroso per il quale il parlamento “eccita al delitto”. Profetico.
La rappresentanza produceva, secondo i più (anche se non per tutti), effetti negativi (siamo al tempo degli scandali bancari e della corruzione manifestatasi dilagante e capillare) senza possibilità di rimedio. Ad ogni modo i critici più autorevoli del parlamentarismo erano di parte liberale. Si possono spiegare le radici di questo fenomeno ma non è qui il caso. Il dato è che c’era il fenomeno.
A fine Ottocento per riepilogare, abbiamo forte autorità centrale con ingerenza nelle amministrazioni periferiche senza poteri di controllo, limiti alla libertà di stampa e di associazione, necessità di espansioni coloniali, liberalprotezionismo, apertura a uomo di genio, negazione del concetto di classe, incivilimento e antiparlamentarismo galoppante. Non sono prodromi? Vabbè, non sono nemmeno provvedimenti anti dittatura. O no?
Nel 1897 è Sidney Sonnino a teorizzare (Torniamo allo Statuto) la necessità di restituire al Principe, uomo sopra le parti, simbolo di unità, un’autorità sovraparlamentare che mantenga alta e inamovibile l’attenzione sull’interesse generale dello stato oltre ogni steccato di particolarismi partitici, individualistici, settoriali (e ridagli, cioè, con l’uomo di genio).
Il pensiero di Sonnino si rafforzava anche per via della crescente affermazione (ritenuta esiziale) del Partito Socialista e di gruppi di questa estrazione che, pur divisi da differenze apparentemente incolmabili, erano tutti uniti nell’avversità alle istituzioni politiche e socio economiche dello Stato unitario. In mezzo la Chiesa, ostile allo Stato liberale e all’avanzata di socialisti e comunisti. Alle opposizioni cattoliche o repubblicane (il pericolo nero a quei tempi erano loro) e a socialisti e comunisti (il pericolo rosso) non si rispose con la costituzione di un partito liberale. Lasciando un vuoto che… provate a indovinare chi ci si è buttato a volo d’angelo?
(continua)
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mercoledì 9 novembre 2011
Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /2
Ora non voglio dire che questi fossero i prodromi del fascismo, ci mancherebbe. Quello che voglio dire, insisto, è che prima di fare dei distinguo netti tra il prima e il dopo nella storia, bisogna guardare le cose con cautela. E che si assisteva al radicarsi di una cultura in cui il fascismo avrebbe attecchito facilmente. Procediamo.
Un forte controllo centrale senza garanzie era unito in quel tempo a uno sfrenato liberismo in campo economico che favoriva ovviamente grandi invasioni di mercato da parte degli stranieri. Il liberismo doganale presupponeva una concezione, molto radicata, che non vi fosse uno spazio naturale, una predisposizione, per lo sviluppo industriale in Italia. È solo a partire dalla fine degli anni’60 dell’Ottocento che cresce un’esigenza sempre più forte di rivedere le politiche doganali in senso protezionista e di favorire un'industria solida. Si prendeva a modello la Prussia che otteneva successi militari grazie alla preparazione e alla dotazione dei suoi eserciti ma anche alla forza economica, dovuta alla grande capacità dei tecnici, alla competenza delle maestranze, alla grandezza delle sue industrie. Una prospettiva di accrescimento delle capacità industriali nazionali si stava alimentando in tutta Europa: forte produzione siderurgica (armi, ferrovie, navi) e forte potenza militare. E l’Italia fece il suo. Un quadro chiaro e coerente si ebbe negli anni ’80 dove si riscontra grande produzione di apparati bellici, miglioramento dell’esercito, espansione coloniale. E in più coltivazione e ampliamento dei rapporti con l’area austro tedesca (che otteneva successi militari e politici a manetta). In quel momento l’innalzamento delle tariffe doganali sembrava un obbligo.
In questo contesto le idee di patria e di interesse nazionale, oltre i retorici richiami al re e a Garibaldi, vennero identificate con difesa degli interessi economici e difesa della produzione nazionale.
Una pubblicazione di Leone Carpi, L’Italia vivente del 1878, offre una buona possibilità interpretativa della situazione generale italiana. In un quadro sociale diviso e conflittuale (diviso nelle politiche amministrative, nelle aspirazioni, nell’idea stessa di nazione) Carpi riteneva necessario affidare allo Stato (nota bene: e fors’anche a uomo di genio) il compito di imporre riforme: politica protezionista, espansione coloniale, riduzione della corruzione nell’amministrazione e nella politica, istruzione e educazione (il solito incivilimento). Va detto che in quel periodo era molto diffuso il pensiero per il quale un’analisi che dividesse in classi la società fosse operazione antipatriottica che minava l’unità. La tendenza era quella di pensare la nazione come un blocco coeso e dal comune sentire. Ai termini borghesia, proletariato si preferiva il termine omnicomprensivo di popolo.
Dunque, siamo a metà cammino: forte autorità centrale con ingerenza nelle amministrazioni periferiche senza poteri di controllo, limiti alla libertà di stampa e di associazione, necessità di espansioni coloniali, liberalprotezionismo – diciamo, apertura a uomo di genio, negazione del concetto di classe, incivilimento. La situazione non era granché liberale. O lo era solo in parte, concedendo spazi a forme antidemocratiche. O no?
“Per me, scusate, il concetto che passa è di enorme distanza tra gli ideali e i sogni italiani e la realtà. Con preoccupanti segnali di deriva…” dico dopo aver più o meno espresso quanto sopra.
“Ma tutte le nazioni” - fa lei – “hanno dovuto lottare per assestarsi e migliorarsi. Guarda gli Stati Uniti. Però se noi non avessimo avuto quella pausa del Ventennio, avremmo avuto un progresso più lineare”.
Ora il vaffanculo sarebbe stato d’obbligo. Ma ho soprasseduto. “Scusa devo andare a ritirare i soldi”.
“Aspetta, prendiamo un caffè”.
“Grazie, ho già fatto”.
Non lo volevo dire. Quella cosa che avevo in mente non la volevo proprio dire. Però affermare che il Ventennio è stata una “pausa” non riuscivo a sopportarlo. Allora mi sono ricordato della metafora Craxiana che lei aveva citato, a sproposito, alla cena; e ho creato: “Senti, è come dire che Mani Pulite è stata una pausa tra prima e seconda repubblica”. Un po’ meno a sproposito ma altrettanto destabilizzante. Speravo di non dover continuare.
“Be’” - si ostina invece lei – “un conto è agire nel parlamento, un conto è agire nella dittatura”.
Niente. Non ci riesce a dire una cosa pertinente. Però stavolta avevo iniziato io. Sono riuscito a scappare. Però avrei continuato così:
(continua, appunto)
(continua, appunto)
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mercoledì 2 novembre 2011
Raccontami una storia. Propedeutica dell'Unità. /1
Sono debitore per questa e per le puntate che seguiranno a A.M. Banti, Storia della borghesia italiana, Roma 1996 che ho letteralmente saccheggiato.
Ora di pausa. Scendo al bancomat. Banchetto di contestatori. Mentre guardo distrattamente il castagnaro, l’occhio va pure su un manifesto in bianco e nero appeso a un tavolo di plastica. Non si capisce una mazza. Termini vecchi e desemantizzati vorrebbero esprimere la stanchezza del popolo oppresso. Dietro, sotto il tavolo, infradito scamosciate. Alzo lo sguardo. Era lei, quella della cena coi faretti.
“Ciao”.
“Ciao. Vuoi un volantino?”
“Certo. Come va?”
“Come vuoi che vada? Con questi bori al governo.”
“Eh, lo so. Sarebbe ora della rivoluzione. Che dici?” Cerco di fare il simpatico.
“Guarda”, fa lei, “ormai mi accontenterei persino di un governo di destra con persone normali. Normali dico. Gente per bene. La destra storica”.
E ti pareva. Lo sapevo che finiva così. Me ne volevo andare con una scusa tipo “ho fretta, mi aspettano”. Però purtroppo ho risposto: “Nooo, quelli no. Quelli ci hanno portati dritti dritti al fascismo”.
“Ma scherzi? Cavour, Ricasoli… è a loro che dobbiamo quel po’ di Stato che funziona! E te lo dico io che sono quasi stalinista”.
Porcaeva. Ma perché mi metto sempre in questi casini? Dovevo pure tornare a lavoro…
“Vabbe’, senti ne parliamo un’altra volta. Tanto pare che anche non volendo ci vediamo spesso.”
“No, no. Dimmi, almeno in sintesi, quello che pensi”.
Madonnamia. Qui si finisce a litigare. Non c’è nemmeno un padrone di casa a fare da peacekeeper.
“Guarda, voglio solo dire che le cose non piovono dal cielo. Se siamo arrivati al fascismo e se ora abbiamo una marea di problemi di ordine amministrativo e politico i motivi stanno già nei primi anni di unità. Altro che Patria e bandiera. Quello era il corollario retorico di atteggiamenti tutt’altro che liberali.”
“Cioè la destra liberale non era liberale? Ma sei impazzito? Carla, Luisa, venite a sentire!”
“Ma tu che vuoi da me? Io me ne stavo andando. Hai insistito.”
“No, dimmi. Voglio che ascoltino anche loro.”
E arrivano due con jeans, maglietta, sneakers. Dalle borse spuntano vari quotidiani: riconosco il Manifesto, la Repubblica ma ce ne sono almeno altri due misteriosi.
Che devo dire? Meno parli meglio è. Se parli sono rotture di palle. Poi dicono che io non mi filo nessuno.
Il fatto è che se uno va a vedere sul serio l’ordinamento programmato e attuato dalla “destra liberale” tra il 1859 e il 1865 si evince con chiarezza la volontà di realizzare uno stato forte e autoritario. Una cosiddetta dittatura della maggioranza. E se qualche seria causa si può rintracciare, dopo il 1870, nelle spinte antiunitarie e nel brigantaggio, è proprio nel periodo precedente, quando questi problemi non sono all’ordine del giorno, che si vede la volontà tutt’altro che aperta del governo centrale.
Tanto per cominciare: secondo la legge del 20 marzo 1865, art. 3 il prefetto rappresentava il potere esecutivo in tutta la provincia, provvedeva alla pubblicazione ed esecuzione delle leggi, vegliava sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, soprintendeva alla pubblica sicurezza, aveva diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata. Dipendeva, inoltre e soprattutto, dal Ministro dell’Interno di cui eseguiva le istruzioni. Queste istruzioni riguardavano l’ingerenza governativa nell’amministrazione comunale e provinciale, regolata da legge ben precisa (cioè questa cosa dell’ingerenza la legge ce l’aveva nel titolo). Tra i compiti del prefetto c’era ad esempio quello di controllare e approvare le deliberazioni dei consigli comunali perché diventassero esecutive. E controllava anche gli atti dei consigli provinciali. Da solo. Dunque il governo aveva una vigilanza assai ampia sui provvedimenti degli organi elettivi. Senza contare che ai prefetti si delegava il compito di stimolo delle forze economiche e sociali nella loro area di competenza, per accelerare processi di incivilimento (traducibile con un più prosaico ruolo di educazione e propaganda). Cioè una capillare penetrazione degli organi centrali nella società senza reali decentramenti. Forza e autorità centrale.
Questo derivava da un concetto comune all’intera classe politica riconosciuta come “destra storica”. Prendiamo le parole di un padre della patria acclamato come Massimo D’Azeglio: Che cos’è il governo? Non è forse quello tra i partiti che s’è trovato più numeroso, e che secondo le regole del sistema costituzionale fu perciò investito del potere esecutivo? Il governo, mi direte, è per tutti; dunque dev’essere imparziale fra tutti i partiti. Come imparziale? Pugna ne’ termini. Precisamente perché è un partito, e nel principio medesimo che l’ha condotto al potere, deve cercare di restarvi: l’agire in altro senso sarebbe rinnegare sé stesso, la sua politica, la fiducia della corona e della maggioranza del paese. Lo Stato è considerato di proprietà di una parte. E la proprietà dello Stato si fonda sul consenso elettorale. Altro che Berlusconi. Che un prefetto dovesse agire in esecuzione imparziale delle leggi a D’Azeglio e compagnia non passava neanche per l’anticamera del cervello.
Non solo. Fin dalle prime elezioni l’opinione pubblica poté constatare che il governo cercava in ogni modo di influenzare gli elettori attraverso l’azione dei prefetti. Il liberalismo de’ noantri. Il governo era anche un partito e faceva campagna elettorale con tutti i mezzi a sua disposizione, anche attraverso istituzioni che per loro natura avrebbero dovuto garantire imparzialità.
Ugualmente nei confronti del potere giudiziario: mentre nei proclami generali si intendeva dare la massima indipendenza alla magistratura, era proprio con leggi apposite che questa indipendenza veniva sostanzialmente negata. Nel regio decreto del 6 dicembre 1865, art. 169 si diceva: il pubblico ministero è rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria (un prefetto presso i tribunali dunque) ed è posto sotto la direzione del ministro di Giustizia. Il Ministro poteva procedere direttamente alle nomine, indipendentemente dai concorsi, poteva trasferire, sospendere o dimettere d’ufficio. Cioè o il magistrato seguiva le direttive del governo o lo defenestravano. I liberali. Quello giudiziario era solo un ordine, dunque sottoposto al rigoroso controllo del governo centrale. Non garantire l’inamovibilità dei giudici significava non garantirne l’indipendenza, come sapevano perfettamente molti esponenti politici di allora.
Poi: è noto che lo Statuto Albertino prevedeva libertà di stampa. Con esso in realtà si aboliva la censura preventiva ma non il controllo repressivo. Cioè si colpivano le pubblicazioni non più prima che eventualmente violassero la legge e l’ordine ma dopo. Prima scrivi, però se non scrivi come dico io ti metto in galera. E infatti il pubblico ministero, su propria iniziativa o dietro querela privata, poteva mettere sotto la morsa dell’azione penale uno stampato, dichiarando le proprie motivazioni e dandone notizia immediata al giudice che, per accertarsi della consistenza giuridica, disponeva il sequestro di una copia da visionare. Ora, questo sequestro venne da sempre interpretato in modo estensivo come di tutte le copie in circolazione. Tutte. Salvo poi restituirle al proprietario nel caso di un decadimento delle motivazioni che avevano imposto l’avvio delle procedure giudiziarie. È ovvio però che restituire un quotidiano - tutte le copie di un quotidiano - anche solo il giorno dopo, lo rendeva inutilizzabile. E dunque il sequestro diventava un potente strumento censorio, come in effetti fu. Se consideriamo la sudditanza del pubblico ministero nei confronti del governo, risulta chiara la capacità di vigilanza che quest’ultimo poteva esercitare sulla stampa.
Addirittura e inoltre, nei confronti delle associazioni la capacità di intervento dell’esecutivo non aveva alcun tipo di intermediazione. Quando iniziarono a formarsi le prime associazioni di orientamento politico contrario al governo (repubblicani in primo luogo) si voleva che fosse il presidente del consiglio a scioglierle. Fu Rattazzi ad accettare questa linea e a presentare un disegno di legge, il 3 giugno del 1862, atto a dare il potere al governo di sciogliere associazioni i cui principi fossero contrari allo Statuto e che minassero la sicurezza dello Stato. Vista una certa ostilità della Camera il presidente sollecitò un parere del Consiglio di Stato sul fatto che il governo potesse sciogliere le associazioni “suscettibili di danneggiare gravemente l’ordine pubblico”. Il Consiglio di Stato diede parere favorevole, il parere divenne giurisprudenziale e il governo si trovò nelle mani il potere di decidere quali fossero le associazioni buone o cattive in maniera del tutto arbitraria e autoreferenziale. I liberali.
(continua)
sabato 22 ottobre 2011
NON LASCIAMOCI INTIMIDIRE!
Hanno devastato la sede di LIBERA a Borgo Sabotino. Vedere QUI.
Bastardi. Criminali. Vigliacchi.
IO STO DALLA PARTE DELLA LEGALITA'
NON PASSIAMO SOTTO SILENZIO QUESTI EVENTI. PER I NOSTRI FIGLI.
NON LASCIAMO CAMPO A CHI VUOLE RUBARCI LA LIBERTÁ
martedì 18 ottobre 2011
Indignati?
Mi stavo chiedendo se valesse la pena dire la mia sulle devastazioni a Roma. Probabilmente no. Potevo solo replicare il già detto. Tra l’altro mi sono astenuto dalla lettura dei commenti sui giornali, il che peggiora la situazione. Comunque non mi piace questa manifestazione (quella “vera”) che sembra persino “appoggiata” dal sistema. Anzi, mi viene da dire “guidata” ma adesso non è il caso di approfondire e, sicuramente, c’è chi saprebbe farlo meglio di me. Una cosa però mi ronza nel cervello: alla condanna delle violenze ha fatto eco un giustificazionismo piuttosto esteso. Di questo tenore: se lo stato ti violenta, se le banche violentano la tua vita e la tua tranquillità, se speculano sul tuo futuro rispondi con la violenza.
Quasi un’ovvietà.
Questa logica è più diffusa di quanto pensiamo. Persino nel “movimento” (degli indignados). Così a un gruppo di ingenui pacifisti guidati e incitati dal sistema che dovrebbero combattere (e questo è purtroppo un po’ vero) se ne opporrebbe uno di veri “incazzati” che reagiscono alla situazione politico economica. Ne conseguirebbe che i feriti (non banchieri, speculatori, figliomignottanza varia della finanza ma partecipanti pacifici, impiegati delle forze dell’ordine e cittadini comuni) sono una “necessità”, un prezzo da pagare nella guerra. È d’altronde quello che ha detto uno, che sabato stava a spaccare tutto, in un’intervista a La Repubblica. Sono “loro” che violentano, “noi” rispondiamo. “Chi ha ucciso le quattro operaie di Barletta?” ha sentenziato. Be’, tesoro dello zio, magari sono morte anche perché un figlio di puttana le sfruttava in nero e un altro non ha fatto il suo dovere di tecnico, però tu non hai tirato il sampietrino al figlio di puttana, l’hai tirato a un povero cristo che non c’entrava un cazzo. Ti è chiaro? Quando i giornalisti di Repubblica ti hanno fatto notare il particolare hai eluso la domanda, hai risposto che “tutti” sapevano cosa volevate fare, sia quelli del “movimento” sia i poliziotti. Se così fosse (e sarebbe spaventoso) comunque non sarebbe meno grave la totale mancanza di logica della tua azione da eroe della domenica. Secondo te le operaie di Barletta le hai vendicate spaccando la porta del negozio, della tabaccheria o anche, metti pure, di una banca? Non ti posso dire cosa penso veramente della tua intelligenza, perché mi fai paura.
Non posso permettermi neanche di dare consigli a voi geni che andate ad addestrarvi in Grecia in organizzazioni paramilitari (dal che si ricava che se gli indignados sono un “sistema” lo sono altrettanto i black block). Però una riflessione: se proprio volete fare i violenti, i combattenti, i paladini della rivoluzione contro l’economia globalizzata, il precariato, la speculazione finanziaria, andate a prendere a bastonate i banchieri, piantate magari un sampietrino in fronte a qualche pezzo grosso delle multinazionali, fate saltare in aria la sede di una società di mediazione finanziaria e non rompete i coglioni alla gente che cerca di sfangarla ogni giorno facendosi un culo così (magari riponendo qualche speranza in un “movimento” non molto spontaneo ma presentato come tale). Coraggio, vigliacchi che non siete altro, prendetevela con chi crea i problemi della società, non con chi li subisce. È chiaro il concetto? Possibile che ancora non abbiate capito l’elementare differenza tra sfruttatore e sfruttato?
Pensate poi che il coup de théâtre di spaccare la statua della Madonna abbia fatto tra voi proseliti contro la Chiesa Secolare? Voi non avete capito una mazza dei bisogni della gente. Voi andate in Grecia ad addestrarvi a spaccare la società che condividete ogni giorno. E nel giorno in cui vi credete Che Guevara, non siete altro che leccapiedi dell’ego immenso in cui affogate, brutalizzando li stessi per cui credete di combattere.
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lunedì 3 ottobre 2011
LO FANNO APPOSTA
È assolutamente evidente che al Comune di Latina lo fanno apposta.
A piazza Bruno Buozzi, di fronte al Tribunale, avevano messo, nel 2000, la statua intitolata “La pace” di Duilio Cambellotti. Una scultura piccola ma gradevole, con una stilizzata figura che guidava l’aratro verso il tribunale. A me, tutto sommato e considerando le grandi menti dell’amministrazione, non dispiaceva. Avevo elaborato tutta la mia interpretazione di una pace che traccia il suo solco fruttifero verso la giustizia (parola impressa a chiare lettere sul fregio liscio del porticato di facciata del palazzo del tribunale). So bene che tra giustizia e legge c’è una grande differenza ma almeno era un messaggio positivo. O, meglio, per me lo era.
E infatti era troppo. Era un’interpretazione che proprio non stava nella testa di quelli là, quelli del consiglio Comunale. Pertanto, appena insediati, un segno lo dovevano pur dare di come stavano messi. Pensiamo alla giunta precedente che ha voluto essere ricordata ponendo quell’orrido dito in culo che è la cosiddetta scultura al centro dei portici dell’Intendenza di Finanza.
E allora via Cambellotti, via tutto. Adesso ci mettiamo la statua del Seminatore, recuperata dalla sede della Coldiretti. Così ho pensato che, almeno, volessero dare un messaggio diverso: “è giunta l’ora di seminare la giustiza per raggiungere l’uguaglianza”. Ma io sono povero e ingenuo. Infatti il Seminatore è posto con le terga verso il Tribunale. Non solo. Poiché è girato verso sinistra, non guarda in asse verso Piazza del Popolo, il Comune, viale Mazzini; guarda verso l’edicola.
Io ci ho provato a starmi zitto. A cercare di vedere l’aspetto positivo (ehm…), però mi rimbomba nella testa una sola idea. Ora ve la dico e poi ognuno per sé e Dio per tutti.
Quella statua è emblematica, il simbolo chiave della situazione attuale. Cosa è quel popolo che “doveva” coltivare la terra redenta, quel popolo fiero seminatore del fertile agro pontino sottratto alla palude? È un popolo che elegge politici servi di potentati o che costruiscono potentati per sé; perciò, dà le spalle alla Giustizia. È un popolo che vede in giunta comunale gente che non ha votato o che ha preso pochi voti con slogan tipo: “tutto è permesso tranne quello che è espressamente vietato dalla legge”. Cioè, più o meno, siccome non è vietato dalla legge fregarsene del prossimo - sbattersene se ai giardini pubblici i giochi sono distrutti, se nelle scuole ti devono chiedere un contributo per la carta igienica e i colori e, comunque, non puliscono né i cortili né i giardini circostanti, se non c’è un servizio di trasporti decente, se negli uffici pubblici si devono fare trafile ottocentesche (vedi mense scolastiche), se la città è sporca, se non c’è cura e interesse del bene comune - allora è permesso.
Dunque il Seminatore dà le spalle (e il culo) al Tribunale. Inoltre distoglie lo sguardo da qualsiasi riferimento d’interesse pubblico (negando – negandosi - anche la matrice architettonica dell’asse Tribunale - viale Mazzini – Portici Intendenza di Finanza – Piazza del Popolo), rivolgendosi al bar e all’edicola. Mi sa che là davanti non ha più semi…
martedì 27 settembre 2011
LA FINE
La forza dominante che ha reso servizi inestimabili al paese, sconfiggendo la Bestia Trionfante del bolscevismo, gli antinterventisti e i fautori della lotta di classe, l’immobilismo di uno stato liberale incapace di mettere a frutto i risultati della Vittoria ha concluso, grazie all'efficienza e alla rapidità proprie solo del popolo pontino gloria fascista, la demolizione dell'immondo pontile eredità dell'esperienza straniera ed estranea all'orgoglio della nazione.
Grazie all'indefesso lavoro dei martiri del dovere, eroi del patriottismo, apostoli della civiltà e pionieri della croce, le soverchianti forze della natura sono state sconfitte e la luce imperitura della fu Littoria brilla nuovamente sulle cristalline acque del mare di Enea.
Viva Di Giorgi. Viva la Sogin. Dio è con noi, per la patria, per la famiglia, per la Vittoria.
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martedì 20 settembre 2011
L’ETICA DEI PRIMATI
articolo apparso su IL FONDO - anno IV n. 166 - 19 settembre 2011
Il sedicente capo dell’opposizione della mia città, all’indomani dell’incontro con alcuni lavoratori, tra le migliaia, che rischiano o già hanno perso il posto di lavoro in questo territorio, ha scritto un comunicato: duemilanovecentottantuno battute. Millecentottantuno dedicate - si fa per dire – a un’illuminata, strategica, onirica proposta: il Sindaco attivi un tavolo (peraltro in precario italiano). E poi milleottocento battute di critica all’amministrazione perché non fa quello che dovrebbe fare secondo lui, seguendo il più trito copione delle argomentazioni ripetuto svogliatamente. Una cosa stitica e asfittica che non cerca il bene dei lavoratori in ansia e nemmeno suscita l’indignazione dei pochi contrari al regime cittadino. La politica fatta come in catena di montaggio, coi pezzi prestabiliti assemblati alla stessa maniera facendo sempre la stessa identica operazione.
La massima attività comunicativa dei politici è sparare banalità e ammiccare, come se fossimo tutti scimmie.
Diciamolo chiaramente allora: siamo scimmie. Nelle ultime elezioni nazionali abbiamo votato con una legge elettorale che non considera gli elettori esseri pensanti ma solo primati in grado di eseguire operazioni semplici: Tu fai la croce, poi a chi deve andare a sedersi ci penso io (che sono una scimmia a cui è capitato in sorte di essere più figlio di mignotta di te). E a noi è andata benissimo così. Persino dopo che Calderoli (no, dico, Calderoli) l'aveva definita una porcata (votata da lui stesso, intendiamoci), ci siamo divertiti a chiamarla “porcellum” tenendocela.
Ma, per dirla tutta, non va meglio nelle elezioni che prevedano indicazione della preferenza: andatevi a vedere il bel rimpasto fatto dal Comune di Latina distribuendo assessorati a gente che non era stata eletta e ficcando nella giunta addirittura persone che nemmeno si erano presentate alle elezioni. Uno schifo. Senza vergogna.
La colpa però, insisto e ormai ne sono certo, è di chi vota.
Faccio un appello: chi non sa come votare, faccia un favore a tutti e resti a casa.
Scegliere chi deve governare è una cosa molto seria e far passare quest’azione come un dovere morale è un'operazione suicida e irrazionale. Votare nella totale inconsapevolezza è come fare l’autista dello scuolabus sotto l’effetto dell’eroina.
Io non vorrei mai essere giudicato in un processo (spero di non averne mai) da un astronauta o da un fioraio ma solo da un giudice competente. Perché la decisione sulla classe dirigente che deve occuparsi di amministrare e sviluppare il paese deve essere affidata a totali, volontariamente, incompetenti?
In quest’epoca di televoto ci hanno convinto che per esprimere la nostra opinione (su stronzate varie) dobbiamo pure pagare. E noi lo facciamo, contenti e beati. Ma mentre se paghiamo per far restare una sconosciuta - pure vagamente troia - dentro un reality (oppure per decidere se il bellimbusto di casa Savoia è più bravo a ballare o a cantare o a chiedere il risarcimento a favore di quelle simpatiche canaglie che lo hanno preceduto) diamo un contributo alla tragedia culturale del paese, quando gratuitamente andiamo ad esercitare il nostro diritto di voto decidiamo anche che ne sarà delle nostre tasse, del nostro tenore di vita, del rispetto della legge, della convivenza civile. E la maggioranza non è eticamente in grado di farlo. Mi dispiace ma è così, bisogna farsene una ragione. Non è una questione di togliere un diritto. La questione è permettere di esercitarlo a chi è in grado di farlo. O meglio, forse, che ciascuno decida responsabilmente di votare solo quando ha gli elementi per farlo. E gli elementi devono essere oggettivi. Non quello che si ritiene sia meglio per sentito dire o perché il candidato sembra in buona fede ma solo quello che in maniera razionale e comprovata risulta tendere alla costruzione del bene comune. Non di una parte dunque. Di tutti.
Pur avendo ogni cittadino, giustamente, il diritto di votare, votare non è un dovere. Votare è, appunto, un diritto. Il dovere morale è votare bene. Cioè in favore del bene comune, non tuo personale. Va da sé escludere l’opzione più praticata, cioè votare a cazzo in base a opinioni personali sul candidato. Se non hai competenza, solide basi di giudizio, senso del bene comune e razionalità, lascia perdere. Fai il tuo dovere civile e morale in maniera più concreta e utile se ti astieni. Tant’è. Non c’è buona fede che tenga. Se tu credi che l’Idraulico Liquido si possa bere come digestivo sei un idiota. Se lo fai bere ai tuoi ospiti sei un idiota criminale. Il fatto che in buona fede hai ammazzato quelli che avevi invitato a cena non ti eviterà la galera (a meno di perizie psichiatriche etc.).
Voglio essere molto chiaro: anche i più incalliti attivisti politici possono avere tutta la buona fede possibile, combattere per ciò in cui credono ed essere sicuri che le loro scelte e il loro voto diano un’irrinunciabile contributo alla costruzione del bene comune. Ma essi possono essere comunque mal informati, possono mancare di elementi importanti per giudicare i risultati finali e, in buona sostanza, credere di partecipare al bene comune ma in realtà andare dalla parte opposta. Questo succede per esempio nei casi in cui un volto noto, cantante, attore, sportivo, sposa una campagna e spinge in una direzione esercitando una grande influenza. In molti casi sa solo quello che gli hanno riferito, non ha verificato e tutti gli dicono bravo ma i risultati sono assolutamente scarsi.
C’è bisogno di consapevolezza, razionalità, studio, capacità di analisi. Come in tutte le attività di grande responsabilità. Altrimenti c’è l’astensione. Un’onesta partecipazione alla vita della comunità senza dare il proprio contributo a fare danni irreparabili.
Avere un diritto è una cosa. Esercitare bene quel diritto è tutt’altra. E questo non dipende dal grado di istruzione o dalla possibilità economica che hanno le persone: ricordo che don Roberto Sardelli ha fatto di bambini poveracci e baraccati i principali interlocutori dell’amministrazione romana durante le battaglie per la casa.
Io sono per l’uguaglianza. E per la democrazia. Ma mentre l’uguaglianza per me è la base fondamentale di tutto, la base del diritto, della convivenza, dell’essere uomo, la democrazia è solo lo strumento, ancorché il migliore forse, per raggiungerla. Un importante strumento di selezione della classe dirigente soprattutto, che deve portare a quella uguaglianza nella costruzione del bene comune. Dunque, la selezione non può essere fatta a coppola di minchia ma con attenzione, senso di responsabilità, preparazione, razionalità, conoscenza dei dati. E giustificate, ponderate scelte di voto.
Parlando con lo stomaco (in cui com’è noto risiedono tutti i sentimenti) la democrazia ci renderebbe migliori e ci aiuterebbe nel raggiungimento della felicità se noi non fossimo scimmie. Invece lo siamo, ancora e purtroppo. Ci rapportiamo tra noi e ci rappresentiamo (e ci facciamo rappresentare) non in base alla ricerca della verità, dell’uguaglianza, della giustizia, del bene migliore possibile per la collettività ma in base alla ricerca del consenso. Ci piace fare branco e avere opinioni omologate. Non usiamo razionalità ma subiamo l’influsso delle emozioni. E questo tradotto in azioni democratiche, nella vita politica, significa essere privati, non arricchiti, di autonomia. Basti vedere le coalizioni appiccicaticce e prive di progettualità e di sguardo al bene comune che si susseguono dal dopoguerra in Italia. E anche nella mia città.
Mentre tutti i votanti hanno un medesimo potere decisionale, non è assolutamente vero che questo potere sia della medesima qualità. Chi vota per migliorare non può essere uguale a chi, per mille motivi, vota per peggiorare. Votare in base al proprio credo religioso o alla propria ideologia ignorando l’evidenza della realtà, ignorando soprattutto cosa sarebbe bene per la collettività è esiziale. E qui purtroppo la verità è che se abbiamo politiche che uccidono le famiglie, che annullano lo sviluppo e la ricerca, che fanno tracollare l’economia, che incentivano l’omofobia e contemporaneamente l’eterofobia è perché votano stupidi, ignoranti e teste a missile. Gli stessi che si candidano, tuttavia. Ma non tutti. Solo quelli che prendono i voti.
Non basta proprio sapere che un candidato è per un sistema di sviluppo (teorico) e un altro per uno opposto. Queste sono notizie di massima, di base. La concretezza della valutazione poi si dovrebbe fondare sui singoli specifici indirizzi che uno - che vuole il mio voto - prende: va in direzione dello stare bene tutti o di favorire solo alcuni? Si circonda di persone di chiara, cristallina onestà o di macchinatori degli affari propri?
C’è un’etica della politica che passa per l’etica del voto. Rinnovo il mio appello: se devi votare un candidato perché è proprietario della tua squadra del cuore, stai a casa a giocare alla Playstation. Non c’è nulla di male, anzi fai un grande gesto di costruzione del bene comune. Se devi votare per uno che dice di ispirarsi all’America dei Kennedy e poi approfitta del “porcellum” per mettere in lista gli amichetti suoi e i figlioletti degli amichetti, stai a casa. Non è che siccome dice di essere dalla tua parte poi lo sarà davvero. Guarda bene, guarda oltre.
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venerdì 2 settembre 2011
Demolition blues
Quando m’hanno detto che erano arrivate le gru al pontile della nucleare, lo giuro, ho pensato a una migrazione di volatili. Non mi è passato nemmeno per la testa che si potesse trattare delle macchine per demolirlo. Mi sono pure detto: “Guarda che fico, magari la natura ci aiuta a farlo diventare un’attrazione turistica”. Poi sono andato al mare e ho visto coi miei occhi gli enormi bracci che si innalzavano, spiccando dalla testa del serpentone di cemento. Dietro c’era Torre Astura, come sempre, e dalla parte opposta, quasi speculare, il Circeo. Ma il pontile stava per sparire.
Io non so nemmeno com’è fatto il panorama, senza. Per me c’è sempre stato. Di qua il promontorio, di là il pontile della nucleare. È sempre stato così.
Insomma, com’è come non è, volevo piantare una grana. Quello in teoria potrebbe diventare un bene di archeologia industriale, un monumento del progresso (comunque la si pensi sul nucleare), basterebbe farci una passerella centrale e metterci un chiosco sull'estremità in mezzo al mare. A ottocento metri dalla costa. Se installi pure un cannocchiale a gettone puoi togliere le strisce blu su tutto il lungomare. E puoi trasformare un capolavoro della tecnica in un luogo di socializzazione. I costi sono gli stessi, più o meno, tra demolirlo o mantenerlo; con la differenza che mantenendolo potresti guadagnarci sopra. Pensa a mettere anche dei posti per i pescatori, due euro quattro ore… Ma non si può montare un casino ogni volta, mi dicono.
Il pontile è costituito da quattro file parallele di pilastri in cemento armato, quelle che ora stanno demolendo, tra le quali sono posati due enormi tubi di presa dell’acqua di raffreddamento dell’impianto della centrale nucleare. Due metri e settanta di diametro per una portata di centottanta metri al secondo ciascuno. Una cosa mostruosa. Quando bisognava pulirli venivano chiusi, svuotati dall’acqua e dentro ci si calava un trattore che arrivava in fondo, apriva una specie di ombrello che aveva il diametro del tubo e veniva indietro, tirandosi appresso tutto il deposito. Un deposito meraviglioso: polpi, crostacei, spigole, cefali, mafroni, saraghi, marmore. E via con la brace. A volte i pescatori, quando i tubi erano in manutenzione, andavano di nascosto a far saltare le griglie di testata dei tubi, per fare rifornimento: niente di più pericoloso. Immaginate che vuol dire rimettere in funzione tubi che aspirano acqua al ritmo di centottanta metri cubi al secondo. Se li risucchiava con tutta la barca. Ora è ovvio che se stanno demolendo i pilastri, i tubi dovranno toglierli, non è che possono lasciarli fluttuare sul fondo del mare. Almeno credo. Invece magari si potevano sfruttare come spazi; non so, potrebbe essere una cazzata ma mi sono immaginato un percorso con gli oblò: vai dentro e vedi tutto il mare dal fondo, per ottocento metri. Certo meglio che tentare di sfruttarli per incanalare gli scarichi depurati delle fogne, come ho sentito dire: avete idea della pressione che bisogna superare per fare uscire i liquidi a quella profondità? E poi i tubi finiscono nella presa d’acqua dell’impianto di raffreddamento della centrale. Boh…
Ma non voglio fare polemiche. La demolizione è inutile e dannosa, come la speranza di fare il faraonico porto col lungomare di merda che abbiamo e con le mulattiere che si ingorgano al primo che frena un po’ più prudentemente della media.
Ad ogni modo a me la sparizione del pontile m’ha messo il magone. Sarò un sentimentale, che vi debbo dire? Però non sono solo: gran parte di quelli di Borgo Sabotino (il borgo dov’è la centrale nucleare) sono con me. Hanno pure raccolto le firme ma il Comune ha agito alla traditora. Conferenza dei servizi a luglio inoltrato, cittadini senza voce e zac! Gru al pontile. Più per questo, devo dire, che per le operazioni in sé, mi viene da fare un macello. Ma anche perché è come se stessero distruggendo un pezzo di casa mia.
Migliaia di volte da ragazzino ho preso la bici e sono andato dal tribunale a Capo Portiere, ho bevuto alla fontanella e mi sono asciugato il sudore guardando il pontile, girato verso Foce verde. Da solo. Era bellissimo. Oppure ho vagato verso Sabotino, passando davanti al Procoio e poi arrivando a Foce verde. C’era un fiume che sfociava lì. Non ho mai saputo che era il canale Mussolini (detto verginalmente “delle Acque Alte”) fino a che non me l’ha detto Massimo Marzinotto. Per me l’unico canale della bonifica era quello delle Acque Medie. Ma neanche di quello sapevo nulla, se non che passava dietro casa mia e ci andavo a fare i pic nic coi compagni delle elementari. Sapevo che c’era quell’altro, intendiamoci, ma solo perché ci passavo sopra in macchina, sull’Appia.
Ora, tutti dicono che quando durante il fascismo iniziarono le demolizioni, Mario Mafai vide in giro le palazzine mezze sventrate e ne trasse delle “meditazioni coloristiche”. In effetti quel ciclo delle “demolizioni” – di Mafai ma anche di Afro – sono di una bellezza e di un fascino uniche. Sono attraenti, piene di colori, la carta da parati delle stanze scuoiate diventa una serie di macchie colorate, in un’atmosfera intensa, con la luce bella e serena. Però non c’è un’anima. Cioè non si vede un essere umano nei paraggi. Sembra quasi che Mafai ritenesse la realtà già terribile così, senza necessità di descriverla con atmosfere plumbee. Tanto è bella la luce di questa giornata, tanto sono affascinanti i colori che escono da quelle palazzine, ormai ruderi, tanto è terribile la realtà, senza umanità. E tutti dopo l’hanno presa come produzione antifascista, come aspra critica dell’atteggiamento autoritario del regime. In realtà quei casini a Roma li vedevano ininterrottamente dal 1870, non so se quella della protesta fosse la molla, la spinta principale dell’ispirazione. Certo è però che quei quadri sono bellissimi. E io vorrei tanto saper dipingere le gru al pontile, mentre mi scavo lo stomaco una volta di più.
C’è stata una volta che, passeggiando a Capo Portiere dopo la solita spedalata, ho visto una ragazza coi capelli rossi, magra, con le lentiggini. Armeggiava con una macchina fotografica, una Pentax professionale, con uno zoom montato impressionante, dentro a una Renault 4 rossa. Poi è scesa e dal bagagliaio ha preso un cavalletto. S’è piazzata sulla testata del molo, guardando verso il Circeo. Poi s’è girata verso di me e mi ha detto: “dov’è il pontile della centrale nucleare?” “è quello”, ho detto io, tracciando con la mano un semicerchio orizzontale. Lei mi ha sorriso, come per dire “grazie, che imbranata”. Punto. Be’ io quel sorriso me lo ricordo ancora come uno dei più bei regali che abbia mai ricevuto.
Adesso me lo levano, il pontile. E in vita mia non gli ho mai fatto una foto. “Tanto è là”, dicevo. E ora? Sarà che è vero - anche se mi duole ammetterlo - che la maggioranza degli esseri umani capisce di tenere alle cose quando per via degli innumerevoli casi della vita, non le ha più. Deve essere stato così pure per il palazzo della Warner Bros. a Dallas, al 508 di Park Avenue. È appena a due isolati dai quartieri bene, ma un po’ fuori mano. Se ci vai adesso vedi solo barboni, ubriachi poveracci che bivaccano. L’edificio è abbandonato e hanno deciso di demolirlo. Appena emessa l’ordinanza ecco che è scoppiato un putiferio: i giornali, gli amanti della cultura, la gente comune. Tutti uniti. “Eh no! Già a Dallas non c’è un cazzo, ci levate pure questo?”. Ed hanno ragione perché quel palazzo, oltre ad essere un pezzo storico importante, architettonicamente (è in gran parte rivestito di marmo, fuori ma soprattutto dentro, la qual cosa gli conferisce un’acustica tutta particolare), è il palazzo nel quale Robert Johnson, nel 1937, ha registrato tredici fondamentali pezzi, che hanno fatto la storia del blues e della musica americana in genere, tra cui Love in vain e Me & the devil blues. Nella stessa stanza delle mitiche registrazioni Eric Clapton ha poi inciso Sessions for Robert Johnson. Molti ragazzi che hanno imparato a suonare la chitarra sono andati là sotto, sognando che un giorno sarebbero entrati in quel palazzo e avrebbero fatto la storia. Molti invece sono andati sperando di incontrare questo o quel famoso. Anche lì tutti ci vogliono un museo, un luogo storico. E si potrebbe fare. L’hanno capito pure a Dallas che un bene culturale è tale anche se recente ma contiene pezzi della nostra anima, della nostra formazione, i nostri ricordi.
Per demolirlo, il pontile l’hanno ucciso. Era vivo e l’hanno ammazzato. Potevamo goderne tutti. Ora gode solo la Sogin.
Amen.
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